CENTO ANNI DI STEFANO D’ARRIGO. UNA RILETTURA DEL MONDO MISTERIOSO DI HORCYNUS ORCA
C’era qualcosa che leggendo il romanzo di D’Arrigo vent’anni fa mi rimaneva come in sospeso. Una domanda aperta alla quale la recente rilettura, grazie al centenario della nascita dell’Autore e agli eventi organizzati dal Comune e dalla Proloco di Alì, mi ha permesso di dare una risposta. Una vita trascorsa a lavorare su un unico romanzo, il romanzo di una vita. Le revisioni ossessive, un lavorio linguistico che mai soddisfa, una novità estrema, l’invenzione di una lingua.
La grande metafora dell’Orca non è un’allegoria perché dantescamente veri sono sia la lettera che il significato di questo libro-mondo, poema come appunto quello dantesco.
La mia lettura è che la storia biologica dell’Orca corrisponda alla storia biologica della comunità dei pescatori di Cariddi. Il Pod delle Orche di cui ci dicono gli etologi è l’unità familiare in cui si organizzano le orche: un maschio, una femmina; i suoi piccoli e altre femmine anziane sterili; gruppi di 25/30 individui che comunicano tra loro attraverso un “dialetto” proprio del pod e che viene tramandato di generazione in generazione.
Tra dialetti di pod differenti che si trovano a vivere in contatto tra di loro si creano influenze che portano così alla nascita di un nuovo “linguaggio”. Una fusione dei “dialetti” originari.
“Orchizzazione”
D’Arrigo crea una lingua che vuole mimare il linguaggio delle pod delle orche metafora delle unità familiari che formano il villaggio dei pescatori di Cariddi il cui dialetto si tramanda di generazione in generazione. Non si tratta di mimesi realistica ma la mia intuizione è che si tratti di trans-biologizzazione, di “orchizzazione” della comunità dei pescatori, di una stessa esistenza, di un destino di morte condiviso.
È una storia che definire filosoficamente esistenziale è limitativo. Ha a che fare col mito per la sua ancestrale origine e la distanza temporale. Ma si comprende meglio con la genesi delle specie, la loro comparsa sul pianeta, la minaccia alla sopravvivenza delle specie, la loro scomparsa.
Genesi della specie
11 milioni di anni fa comparvero i delfini sul pianeta e 5 milioni di anni fa si distinse da essi il genere delle Orche che ora minaccia di scomparire per i pericoli determinati dalla civiltà dell’uomo.
70 milioni di anni fa nascono sulla terra i primati che 4 milioni di anni fa si divisero in scimmie antropomorfe e ominidi, e successivamente si divisero in austrolopiteci – poi estinti – e homo abilis, erectus, sapiens.
La seconda guerra mondiale è una delle ultime fasi – ultima per l’Autore che già visionariamente ne ha previsto la fine – di questa trasformazione che porta alla definitiva scomparsa delle specie e della vita stessa sul pianeta.
Perciò Cariddi è il paese delle femmine, il paese del creare, ma di un creare che non significa dare la vita per sempre. È questo il significato del personaggio femminile di Cata in stato di incantesimo perché non ha potuto consumare il matrimonio con il marito richiamato in guerra.
È simbolo dello stato di disquilibrio creato nella comunità: la guerra ha un forte potere deflagrante in questa catena biologica in cui le femmine dell’uomo sono come le femmine dell’orca. Le figure femminili nel romanzo hanno un ruolo fondamentale nel villaggio composto da Pod, famiglie base matrilineari.
Le femminote hanno natura ferina e divina, discendendo, come le fere, dalle Sirene, creature seduttive liminari tra la vita e la morte, tra il mondo marino e quello ctonio, perciò dotate di prescienza. E nell’Horcinus l’elemento notturno, il sogno, è ben presente.
Dalle Sirene ai Delfini, e poi…
Ecco il passaggio biologico: dalle sirene i delfini, dai delfini le orche, le femminote. Ciccina Circè è una incantatrice che incantesima, con la campanella, le fere.
Dagli etologi sappiamo che tutti i componenti del Pod, della famiglia, comunicano con suoni di vario genere e che ogni Pod ha un proprio dialetto, infine che l’orca ha un organo specifico posto sulla fronte che usa come sonar. Ciccina Circè che comunica con le fere, è essa stessa una fera.
Si spiega così quella teoria che può apparire apparentemente strampalata di Simone: una teoria ittiologica secondo cui alla morte l’anima è trasportata dal pesce rondine. C’è assoluta simmetria tra uomini e pesci.
La guerra come la carestia è l’ultima causa della scomparsa dell’orca come dei pescatori nell’ecosisistema del pianeta. Il reduce Ndrja Cambria trova un mondo sottosopra di miserie materiali e morali, l’antieroe non sa, non può integrarsi. L’epica è rovesciata.
La Storia devasta il Mito
La storia è devastatrice del Mito, del tempo ciclico di Morte/Rinascita, la barca diviene bara, ma anche biblica arca, in viaggio verso il paese dei morti; Cariddi è ricoperta di calce viva per evitare il contagio, lo Stretto è una carcassa di sale. È la fine del mondo.
Solo la letteratura può salvare e rendere l’orca immortale perché essa è immortale ma eternamente muore, è la morte stessa. Il romanzo è tutto costruito su un chiasmo:
MARE – AMORE
MORTE – MADRE
Con la morte di Ndrja, colpito da una portaerei inglese, si completa la metafora della fine del mondo millenario dei pescatori dello Stretto. Muore l’Orca, muore Ndrja. Solo nella morte può trovarsi la fine della depressione più profonda, solo nella regressione al prenatale.
Il significato del chiasmo
È questo il significato del chiasmo su cui tutto il romanzo è costruito, con le sue M e le sue R liquide contenute in ognuna delle sue parole: nel MARE- MADRE c’è l’AMORE-MORTE.
Per concludere, il romanzo mi pare una grande epopea del Mondo delle Madri, la favola tragica dell’individuo che ha smarrito se stesso e che tenta di ritrovarsi, passando per numerose peripezie e incontrando diversi personaggi, attraverso quel nostos, il viaggio del ritorno a casa, da cui è partito: un mondo straziato dalla guerra.
Le Madri sono le femminote, archetipo ambivalente ora in veste di creatrici ora di divoratrici, sono deesse e sirene, un archetipo che scorre tra Napoli, patria di Partenope, da cui il viaggio comincia, allo stretto di Messina, patria di Scilla e Cariddi e dell’approdo, “frattura”, “utero” da cui si nasce.
Il trasbordo solo le Madri possono garantirlo perché solo loro conservano e custodiscono il Mito. Ciccina Circè è una magàra incinta di parole, perché le parole vengono dall’origine dei tempi e bisogna sempre ricrearle per far rivivere il Mito.
E la dualità dell’archetipo, la sua contraddittorietà e ambivalenza, è quella che Joung ci ha insegnato a riconoscere.
La frequentazione da studente dell’Università di Messina, un vivacissimo ambiente culturale dove insegnava Galvano della Volpe che D’Arrigo cita parlando della sua tesi di laurea su Holderlin, di cui pure egli non fu il Relatore, conforta questa intuizione.
Eppure sembra che a scuola fossi svelto. Me lo hanno ricordato dei compagni. Facevo prima i loro compiti, poi i miei. La tesi di laurea su Holderlin, però, l’ho fatta oralmente, vestito in divisa da caporale. Parlai di Holderlin non nazista pazzo, che si cambia il nome in uno italiano. Non credo che piacque molto… c’era Galvano della Volpe… rimasi sempre caporale.
(G. Massari, L’Orca nasce da una piccola poesia. Intervista con S. D’Arrigo, “Tuttolibri” – La Stampa, 29 settembre 1977)
Non è distante da Alì Terme Letoianni dove Bianca Garufi, la Leucò di Pavese, nata a Roma nel 1918 da una madre ribelle, l’unica superstite di una numerosa famiglia aristocratica siciliana sopravvissuta al terremoto di Messina del 1908.
Qui trascorre la giovinezza fino alla laurea in Lettere e Filosofia conseguita a Messina nel 1951, discutendo una tesi di laurea, la prima in Italia, su Carl Gustav Jung, “Struttura e dinamica della personalità nella psicologia di C. G. Jung” con il professor Galvano della Volpe.
Dagli anni Settanta la Garufi si dedicherà all’attività di psicoterapeuta junghiana, diventerà vice presidente dell’Associazione Internazionale di Psicologia Analitica e membro dell’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA), fondata nel 1961 da Ernst Bernhard, con l’intento di diffondere in Italia la conoscenza del pensiero di Carl Gustav Jung, il grande antagonista di Freud.
L’infanzia di D’Arrigo
Stefano D’Arrigo nasce da Agata Miracolo e da Giuseppe. Ad appena un anno di vita del figlio, il padre lascia la famiglia ed emigra in Australia. Qui si fa una nuova famiglia, e non darà più notizie di sé. Quando torna con la nuova famiglia ad Alì nei primi anni Trenta, interrompe totalmente il rapporto con il figlio. E questo getterà una luce particolare e nuova sul romanzo.
Infatti possiamo leggere l’Horcinus come il viaggio del figlio senza padre verso il mondo esclusivo della Madre. Un rapporto che ha metaforicamente dell’incestuoso (vedi la relazione con Ciccina Circè), risolutorio del complesso di castrazione derivato dall’abbandono paterno.
Una madre reale, amatissima, malgrado le chiacchiere paesane sul suo conto. Malgrado le risatine e le prese in giro dei compagni subite dal bambino. Un rapporto complesso, un groviglio, un trauma che ci riconduce alle pagine del romanzo.
Perché, mentre tutto crolla, solo il Mondo delle Madri sembra resistere. Ed è capace di salvare riportando nel proprio grembo in una eterna ri-gestazione (significativa la pagina della placenta in formalina).
Per questo, forse, è stato detto che il romanzo è un deposito di segreti… un’opera misteriosa.