Odiamo il mondo insieme


— Cerco degli amici. Che cosa significa “addomesticare”?
— Significa una cosa che è stata purtroppo dimenticata, — rispose la volpe — significa “Creare dei legami…”
— Creare dei legami?
— Certamente — disse la volpe. — Per me tu non sei che un ragazzino, uguale a centomila altri ragazzini. Non ho bisogno di te. E neppure tu non hai bisogno di me. Per te non sono che una volpe qualsiasi, uguale a centomila altre. Ma, se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo. Io sarò per te unica al mondo…

Avevo dieci anni e non avevo ancora letto Il Piccolo Principe, ma fu allora che cominciai a comprendere gli insegnamenti della volpe. Correva l’anno 2007 e facevo la quinta elementare. Un giorno stavo rientrando da scuola con mia zia, mio cugino, l’affittatario del terzo piano e suo figlio di sette anni. All’improvviso ecco che nell’androne apparve lei, con quegli occhioni enormi, vispi e timidi e quel maestoso manto bicolore semilungo. Tutto mi sembrava, tranne che un gatto.

Con mia madre l’ammiravamo dal balcone di casa nostra, mentre si aggirava per la nostra zona verde baciata dal sole. Era evidente che cercasse asilo. Poco prima aveva fatto balzare dalla sedia mia nonna, che aveva l’abitudine di tenere la porta socchiusa, così appena il gatto sbucò da dietro la tv, lo cacciò a suon di rustiche urla. La vicina aveva invece provato ad accoglierla in casa, ma la reazione della sua gatta non fu diversa da quella di mia nonna.

La sera successiva aspettavo mio padre in cortile. Cercavo di attirare l’attenzione del micio, ma oltrepassò il cancello per rifugiarsi sotto una macchina.

Il mattino seguente piansi perché non la vidi. Mi rallegrai appena rispuntò, così le scesi un piatto di latte con del pane. Dopo aver mangiato un po’ entrò di nuovo dal portone arrivando al primo piano, ma io riuscii a prenderla in braccio. Mia madre, vedendomi dal balcone, mi disse di salirla a casa. Fu così che quella domenica mattina, a pranzo da mia nonna materna, avevamo per ospite un gatto che avevamo trasportato in una gabbia per criceti. Secondo mia madre, in serata l’avremmo nuovamente liberata in cortile, ma invece da allora sono trascorsi altri 12 anni.

Restò per giorni senza un nome, ma una volta appurato che fosse femmina la chiamammo Mea, perché farle il verso ci sembrava una cosa “simpatica”.

I miei genitori si erano separati da circa un anno e mezzo e questo fu un durissimo colpo per la mia infanzia. In più, mio padre due mesi prima mi aveva già dato una sorellina avuta con la sua attuale compagna. Con l’arrivo di Mea nella mia vita eravamo tornati in tre e avevo quindi un’altra sorellina, che però potevo vedere ogni giorno.

Non dava alcun fastidio, probabilmente era già stata addomesticata. Forse si era smarrita o era stata abbandonata, inizialmente aveva qualche riserva su di noi. Era introversa, ma in breve tempo cominciò a fidarsi, a lasciarsi coccolare più facilmente e a cercare il nostro calore. Doveva avere all’incirca sei mesi, mi sono sempre chiesta che giorno fosse il suo compleanno. Da piccola giocava con qualsiasi cosa rotolasse o pendesse. Cominciava a conoscere il mondo degli umani e s’incantava nel vedere la centrifuga della lavatrice in azione mentre noi persone “normali” guardavamo la tv. Aveva anche il vizio di intrufolarsi negli armadi. Un giorno ne uscì fuori con indosso una sciarpa.

Riconosceva i passi miei e quelli di mia madre. Soltanto i nostri. Quando sentiva qualcuno aprire il cancello o suonare al citofono, se eravamo noi e non uno qualunque ci aspettava davanti la porta. I primi anni mi svegliava sempre intorno alle 7 del mattino, tranne la domenica, come se sapesse che dal lunedì al sabato dovessi uscire di casa tutte le mattine. Ma deve anche aver imparato a conoscermi così bene che alla fine si è arresa all’idea che fossi una ritardataria cronica, così ha perso quest’abitudine.

Mi sentivo come Charlie Brown con uno Snoopy un po’ più cinico e lunatico, che spesso ripudiava le mie coccole e i miei tentativi di spupazzamento, poi tornava pieno d’amore in momenti non sospetti. La verità è che veneravo quella gatta che come un’egiziana. La consideravo superiore al resto del mondo, compresa la mia stessa famiglia. A chiunque volesse entrare nelle mie grazie ho sempre lasciato intendere che dovesse essere degno almeno la metà del mio gatto per avermi, e forse ha scatenato più gelosie il mio rapporto con Mea che con qualunque umano al mondo. Faceva come tutti i gatti, ma era proprio il suo essere felino che giustificava i suoi momenti di ghosting. Spesso mi sono chiesta cosa pensi un gatto, è stato con lei che ho scoperto l’empatia. Poi mi sono detta proprio che un gatto almeno è un gatto, che non avendo parola non ha pensieri coordinati e ragiona esclusivamente d’istinto. Così la mia domanda si è modificata in “Ma allora cosa diavolo passa per il cervello della gente?”, e di sicuro anche Mea se l’è posta. Così attraverso il mio gatto indagavo la natura umana.

Credo che in fondo anche Mea mi amasse, me l’ha dimostrato ogni volta che saliva sul mio letto mentre non riuscivo a dormire e con le sue fusa esorcizzava i miei demoni notturni, o ogni volta che era lei stessa a chiedermi di essere presa in braccio, o quando più recentemente la nostra simbiosi era talmente tale che si faceva accarezzare la pancia. Ci porgevamo la fronte, a volte mi rosicchiava i capelli. Dinanzi alle avversità mi sono detta che almeno è bello avere un gatto. Qualcuno dirà che tendiamo a umanizzare i comportamenti degli animali, ma la verità è che è stata Mea ad umanizzare me. Se è vero che amarsi vuol dire guardare nella stessa direzione, io e Mea spesso guardavamo il mondo dalla finestra o dal balcone. A volte amarsi è odiare il mondo, ma odiarlo insieme. Un po’ come i leghisti, ma meno selettive.

Nella mia vita, come molti umani fragili e deboli mi sono spesso illusa di avere tempo per aggiustare le cose, per fare la cosa giusta. Lo scorso gennaio è improvvisamente venuta a mancare mia nonna, e fino a quel giorno mi dicevo che non sarebbe successo, che mia nonna in fondo non stava così male e avevo ancora tempo per farle una telefonata, anni per farle capire che non ero una nipote così pessima e in fondo le volevo bene. Invece se n’è andata una notte all’improvviso, mentre mi trovavo a Milano e il destino ha voluto che perdessi il suo funerale. Tornata a casa non sapevo come confortare mia madre, in fondo avevo anch’io un lutto da elaborare. Ma Mea ci riusciva molto meglio di me a starle accanto. Ci è toccato traslocare, e quando la casa era sgombra e intasata di scatoli, per la prima volta in dodici anni Mea ha graffiato la porta d’ingresso come a voler scappare. Magari temeva un altro abbandono. Arrivati nella nuova casa, la stessa che mia nonna aveva lasciato e che Mea aveva visitato dodici anni prima, i primi giorni faceva fatica ad ambientarsi e camminava diffidente con la pancia a terra.

Lo scorso giugno, insieme a un mio amico ho soccorso una gattina che se la stava vedendo brutta. Mea non è mai andata d’accordo con i suoi simili, a stento si era abituata a noi bipedi. Della piccola, battezzata poi Rey, non sapevamo che farne. Inizialmente era impaurita, ma dopo averla curata nel giro di pochi giorni si era già affezionata a noi e tentava di familiarizzare con Mea, ma Mea non la pensava allo stesso modo. Col passare dei giorni si era isolata, passava intere giornate sotto il mio letto e rifiutava persino di mangiare. Temevo fosse depressa e mi sentivo in colpa. Si era anche beccata un’infezione al palato che emetteva un acre odore. Su internet avevo letto che a volte basta parlare dolcemente al proprio micio per rincuorarlo, che anche se non capirà il significato delle parole percepirà l’amore. Così ho preso un cuscino per sdraiarmi sul pavimento con lei, parlandole di come mi avesse salvata, di quanto le volessi bene e del perché non dovesse dubitare di me che stavo male a vederla in quello stato. Allora durante la notte ogni tanto si sdraiava su quello stesso cuscino e il giorno dopo aveva ripreso a riavvicinarsi: aveva compreso il mio linguaggio, quello della gentilezza e dell’amore viscerale. Ho provato molte volte ad adoperare la stessa tecnica con le persone, ma non sempre mi è riuscito. La gentilezza è in grado di far crescere persino le piante, mentre non comprendo l’ostilità forzata di certa gente, e mi rifiuto di utilizzare un meccanismo che neanch’io comprendo e altro non porta se non astio e ferite. Ma invece persino un gatto è in grado di comprendere il mio.

Quello che pensavo su mia nonna, lo pensavo anche di Mea. Un gatto vive in media vent’anni, può persino superarli. Mea ne aveva all’incirca 13 quando è stata colpita da un ictus. Avevo notato una puntina di sangue tra l’iride e la cornea del suo occhio sinistro, ma non sembrava nulla di che. Dopo un paio di giorni era peggiorato e aveva perso il controllo delle sue capacità motorie. La sera le crisi epilettiche, sedate poi dal Valium. Ho chiamato e richiamato diversi veterinari, ma nessuno reperibile di sabato sera, mentre la clinica più vicina dista 40 chilometri e nessuno mi ci avrebbe mai portata. Questo succede nelle comunità in cui ci si crede una specie superiore, ma non siamo utili neanche a noi stessi. Qualcuno almeno mi ha risposto per messaggi e mi ha suggerito una terapia a base di fluidi. La notte non ho dormito e l’ho controllata più volte. Il mattino seguente aveva ripreso ad alzarsi ma non aveva idea di dove andare, per poco non si buttava dalla ringhiera. Sembrava essersi ripresa lievemente, ma nel pomeriggio ha cominciato a strozzarsi, a vomitare finché la lingua e la bocca non le sono diventate blu e io non avevo nessuno che potesse aiutarmi e nel frattempo chiamavo e richiamavo chi di dovere, mentre a lei imploravo di non lasciarmi. Ed ecco poi l’ultimo respiro, l’ultimo battito, la pupilla dilatata e gialla e la bocca aperta. Quella pelliccia lunga e folta che ancora avrei voluto stringere e accarezzare esisteva invano. Tra le mie mani se n’è andata una parte di me che mi ha dato tanto e mi ha reso i momenti difficili un po’ più sopportabili. Quando ho dato la notizia non cercavo nessun conforto sterile, nessuna attenzione, volevo comunicare solo di stare attenti perché non era giornata.

Ci stiamo tenendo Rey. Ci conforta moltissimo e aveva bisogno di una casa. È una gattina decisamente molto affettuosa e vivace, con un temperamento un po’ diverso da quello di Mea che era più riservata. Rey è anche molto grata, sa come restituire quello che le stiamo dando. Ma non potrò mai dimenticare Mea che mi manca ogni giorno di più.

Alcuni dicono che non conviene affezionarsi agli animali quando poi rischi di perderli e rimanerci troppo giù. Ma ciò non risolverebbe il problema del randagismo. Un cucciolo, sia esso cane o gatto, ha molto più da offrire di una casa in ordine. Ma non è la paura che qualcosa di valore mi si possa spezzare tra le mani, o che mi spezzi io stessa, a bloccare l’amore che posso dare. Allo stesso modo, il piccolo principe amava la sua rosa, piena di difetti e orgogliosamente presuntuosa e incapace di essere sincera. Ma era il tempo dedicato alla sua rosa che l’aveva resa unica. Amare non coincide solo con un vago sentimento, è anche un’azione, una scelta che compi ogni giorno anche se può riempirti di graffi e morsi, o per contrasto ti soffia contro. Anche se ti tocca mettere i guanti e raccogliere le feci dalla lettiera. Solo tre sere prima avevo guardato l’eclissi di luna con lei, e solo una sera prima era salita sul mio letto di notte per essere coccolata. A mie spese ho imparato ancora una volta che il tempo difficilmente è dalla tua parte quando non ne fai buon uso. Avrei voluto darle qualcosa di più, capire un po’ più di lei e offrirle un po’ più del mondo esterno, illudendomi di avere ancora tempo da perdere. Non mi resta che un eterno grazie per quanto mi ha dato.

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