Adamesteanu, un viaggio magico tra la Sicilia e la Basilicata sulle orme di un leggendario archeologo
A Policoro la Prima edizione del Premio “Dinu Adamesteanu”
Sono assai felice di informare i lettori della mia rubrica di essere di ritorno da un’esperienza davvero assai coinvolgente e da un luogo non so a quanti noto, non lontano dalla nostra terra di Sicilia.
Invitata dal Presidente dell’Associazione Idealmente, Franco Labriola, nell’ambito delle manifestazioni “Matera capitale europea della cultura” ho avuto l’onore e il piacere di partecipare, unica siciliana, alla Prima edizione del Premio “Dinu Adamesteanu”, svoltosi a Policoro, in Piazza Eraclea, sabato 24 agosto, per onorare la memoria di Dino Adamesteanu, padre dell’archeologia lucana e nazionale, cittadino del mondo e policorese d’adozione.
Nel corso della serata, ospiti prestigiosi si sono alternati sul palco a cominciare dal Sindaco di Policoro Enrico Mascia e, a seguire, la dottoressa Mariana Adamesteanu, nipote del grande archeologo, Marta Ragozzino, dirigente del Polo Museale della Basilicata, l’Ambasciatore Italiano in Svezia e già in Romania Mario Cospito, l’avv. Vincenzo Santochirico, Presidente della “Fondazione Sassi”, il dottor Savino Gallo, direttore del Museo della Siritide di Policoro e Metaponto e l’assessore del Comune di Policoro, avv. Titti Cacciatore.
Con loro, sono stata intervistata da Antonio Orlando, ideatore e conduttore della trasmissione voxLIBRI, che ha dato vita ad un salotto letterario con alcuni protagonisti della serata, approfondendo il ricordo e la conoscenza del professore Adamesteanu. Dinu Adamesteanu, il grande archeologo rumeno d’origine, ma lucano d’adozione, ha vissuto e lavorato in Sicilia, partecipando a scavi importanti a Gela e allestendone il Museo.
Degli anni siciliani del grande archeologo io ho studiato soprattutto gli aspetti psicologici e le relazioni sociali e umane, non solo attraverso la bibliografia esistente, ma soprattutto attraverso documenti inediti, sconosciuti ai più, conservati nella Casa di Taormina – Casa Cuseni-, ora di proprietà del dottor Francesco Spadaro, che la neuropsichiatra infantile inglese Daphne Phelps ereditò dallo zio Robert Hawthorn Kitson, e dove lei visse dal 1948 fino alla morte, nel 2005, che custodisce un interessante archivio.
Grazie alla disponibilità degli attuali proprietari, ho potuto avere in mano e leggere il fondo delle lettere di Dinu Adamesteanu a Daphne Phelps, composto di 43 lettere, legate ancora con lo stesso nastrino rosso con cui la “signorina inglese” le teneva legate, alcune olografe, interamente scritte di pugno dal mittente, altre dattiloscritte e autografate a penna, la maggior parte in busta, altre senza, inviate tra il 1954 e il 1956 alla sua residenza taorminese.
Dinu si era recato in Sicilia già alla fine del 1949, grazie agli appoggi di amici e maestri archeologi che gli hanno consentito di lasciare Roma e qui, tra il 1950 ed il 1951, ha condotto le prime campagne di scavo a Siracusa, sotto la direzione del Soprintendente alle Antichità Luigi Bernabò Brea, e a Lentini.
Il 1° giugno 1951 poi, Pietro Griffo, Soprintendente alle Antichità per la Sicilia centro-meridionale che stava avviando nella città di Gela e nella provincia di Caltanissetta un vasto programma di ricerca, lo chiama a Gela affiancandolo al giovane neo-ispettore presso la Soprintendenza alle Antichità di Agrigento, Pietro Orlandini.
Le sue visite a Daphne nella sua bella casa di Taormina sono confermate dai numerosi riferimenti delle stesse lettere. Una prima digitazione approssimativa e non di tutte le lettere è stata fatta dal dottor Francesco Spadaro, che però non conosceva il francese e il greco antico, lingue che, insieme all’italiano e al siciliano, sono presenti nelle lettere, per cui il mio lavoro è consistito nella ridigitalizzazione dell’intero epistolario, attraverso un puntuale lavoro filologico di cura e di raffronto puntuale con gli originali.
La delicata storia tra i due durò due anni e mezzo circa e fu un rapporto d’affettuosa amicizia, di complicità, di confidenza, di amore forse, nato sotto i migliori auspici tra due personalità le cui affinità elettive appaiono innegabili. La presenza nello studio della Phelps di numerosi estratti o articoli o pubblicazioni scientifiche di Adamesteanu anche successivi all’epistolario ci dice di un rapporto che in qualche modo dovette continuare più lungamente cambiando, necessariamente, di segno, al di là dell’ultima lettera del nostro epistolario.
Né il tono di quella che è per noi l’ultima lettera lascia pensare alla volontà di troncare il rapporto pur con il nuovo incarico assunto a Roma dall’archeologo, in seguito alla vittoria di un concorso.
Forse, in quel gruppetto di lettere fino all’ultimo accarezzate da Daphne, si cela la storia di un amore che ha un esordio che lo rivela possibile, mai pienamente vissuto ma caldamente vagheggiato, una relazione di coppia che avrebbe potuto essere e non fu, l’unica a cui la donna avrebbe potuto consentire nella sua pur lunga esistenza e che tentò fortemente anche l’uomo, senza che le esperienze biografiche contingenti di quel delicato, cruciale momento in cui il profugo acquisiva la cittadinanza italiana e l’archeologo si impegnava in un’attività di studio e di ricerca che gli avrebbe consentito indipendenza economica, affermazione e carriera, potessero concedergli di abbandonarvisi del tutto.
È la stessa Daphne ad indicare la data in cui i due si conobbero nel capitolo intitolato Archeologia del suo libro Una casa in Sicilia dove scrive: “Nel 1953 ebbi modo di conoscere un archeologo rumeno che era da poco arrivato a Gela, una cittadina situata sulla costa sudoccidentale della Sicilia, fondata dai greci di Rodi e di Creta nel VII secolo a.C..
Un’amica che soggiornava da me insistette perché attraversassimo l’isola in auto e scoprissimo che cosa stava accadendo a Gela.”E’ lì che lei e l’amica Joan conoscono coloro che stavano portando alla luce le antiche mura di Gela profondamente sepolte nella sabbia, spostando rapidamente e coraggiosamente centinaia di tonnellate di sabbia verso il mare con l’aiuto di una scavatrice, “due archeologi intelligenti e volenterosi, Piero Orlandini di Parma e Dinu Adamesteanu, un rumeno fuggito dal comunismo”.
Ma l’interesse di Daphne per l’archeologia non nasce con l’arrivo di Dinu nella sua vita, viene invece da molto lontano. Sir Arthur Evans, l’archeologo inglese, figlio dell’archeologo John, nato a Nash Mills, l’8 luglio 1851 e morto a Youlbury, l’11 luglio 1941, fu, com’è noto, colui che per primo scavò a Creta, dove scoprì le rovine dell’antico palazzo di Cnosso, eretto da una popolazione che egli stesso battezzò minoica, dal mitologico re cretese Minosse, scavi di cui diede notizia nei quattro volumi del suo Il palazzo di Minosse a Cnosso, pubblicati tra il 1921 e il 1935.
Ebbene, il grande archeologo romantico era imparentato con Daphne e nel suo libro Una casa in Sicilia, la Phelps racconta di averlo incontrato una sola volta quand’era bambina e lui aveva più di novant’anni ed era cieco, ma il ricordo del vecchio archeologo rimase sempre vivo in lei.
Quell’incontro tra Daphne e Dinu a Gela sembra perciò tutt’altro che casuale, uno di quegli incontri voluti dal fato per permettere ad anime sorelle di entrare in contatto tra loro. Insomma, si instaurò tra i due in quegli anni un rapporto frequente e assai ravvicinato fatto di visite di Daphne nei luoghi degli scavi, da Gela all’interno della Sicilia, di incontri a Catania quando Dinu si recava a consultare libri in Biblioteca, di progetti di viaggi insieme.
Malgrado non le siano mancate le occasioni, i corteggiamenti a volte anche insistenti e noiosi, la donna non si sposò mai e non ebbe figli. Ho incrociato questi dati con interviste fatte a personaggi di Taormina che la conobbero e in particolar modo a una sua carissima amica, una francese sposatasi con un albergatore taorminese, con la quale Daphne era in grande confidenza e alla quale confidò una volta che aveva avuto un solo vero amore nella sua vita: un archeologo rumeno. Questo tema, lavorando di fantasia, è stato oggetto di un racconto dal titolo L’ultima viaggiatrice nel mio ultimo libro, Ammagatrìci (A&B Acireale Roma, 2019).
Nel 1964 Dinu si trasferisce a Potenza per dirigere la Soprintendenza Archeologica della Basilicata. Era una regione che conosceva molto bene, grazie ai voli coi mezzi dell’Aeronautica Militare e allo studio delle foto aeree. Per la ricchezza di giacimenti archeologici vi si ferma trent’anni e dà un contributo fondamentale alla storia antica della Basilicata, potenziando e creando una rete di musei e di parchi archeologici: sei musei nazionali (Melfi, Venosa, Grumento, Muro Lucano, Policoro, Metaponto) e sei parchi archeologici (Venosa, Grumentum, Serra di Vaglio, Rossano di Vaglio, Metaponto, Herakleia), facendo così della Basilicata, prima del suo arrivo dimenticata ed isolata, una regione d’avanguardia nel meridione d’Italia.
Egli si battè sempre perché le popolazioni locali, con le quali familiarizzava molto, capissero che nei beni archeologici e nelle bellezze naturali consisteva la speranza di riscatto della loro terra. In Sicilia come in Basilicata.
Il mio recente viaggio a Policoro in realtà è stato un ritorno, infatti due anni fa ho fatto un pellegrinaggio che, cominciato nella casa di Daphne, a Taormina, ha avuto fine a Policoro (Matera), dove tutto parla ancora di Dinu. Qui egli è sepolto e qui trascorse gli ultimi anni della sua malattia nella sua villetta nella campagna di Troyli, dove lo andavano a trovare ancora allievi e vecchi amici di un tempo. Ma la casa ora non era più quella delle allegre bevute con gli amici e delle cene sotto il pergolato preparate da Hel Dilthey, la archeologa compagna degli anni di Policoro, che vi coltivava le rose e per anni gli scrive dalla sua Heidelberg, per informarsi della sua salute.
Ho visitato la tomba monumentale di Dinu nel cimitero di Policoro, accompagnata dal dott. Giovanni Lucio Bianco – già assessore del comune di Policoro nella Giunta presieduta dal sindaco avv. Mario Arbia – amico e sodale di allegre mangiate e bevute al “Pitty”, il ristorante di Tonino Chiaromonte, dove Dinu consumava baccalà e beveva pregiato vino aglianico e dove le pareti custodiscono ancora le sue foto.
Sono andata a trovare nella sua bottega artigiana lo scultore del legno Mastro Antonio Albino, assai lieto di mostrarmi le sue pregevoli opere in legno e consegnarmi i suoi ricordi della lunga amicizia con Dinu, che ha raffigurato in una scultura con il bastone con cui si accompagnava in tarda età, in uno dei suoi vecchi tronchi di ulivo lucano.
Ora è stato emozionante per me conoscere la nipote Mariana, figlia del fratello maggiore di Dinu e la pronipote Cristina, alle quali ho avuto il piacere di raccontare aspetti degli anni siciliani di Dinu che non conoscevano e con le quali è nata una simpatica amicizia.
Credo che non solo in Basilicata, ma anche in Sicilia dovremmo tenere viva presso le giovani generazioni la figura di questo grande archeologo, che a Gela chiamavano “Don Bastianu” per la difficoltà di pronunciarne correttamente il cognome rumeno, il cui nome e il cui contributo allo sviluppo della nostra isola non può rimanere riservato agli addetti ai lavori.