L’Italia si sveglia con le immagini che ritraggono i terminal della stazione di Milano presi d’assalto dalla gente in fuga verso il Sud ed Ulisse si riscopre irrimediabilmente fragile.
La fuoriuscita delle indiscrezioni inerenti alla bozza del nuovo decreto sull’Emergenza Coronavirus manda in tilt centinaia di fuori sede.
Mentre guardo quei fotogrammi, è la Letteratura a offrirmi lo spunto per commentare quanto sta accadendo in queste drammatiche ore. Essa, spesso, racconta agli uomini se stessi, con la forza catartica di una seduta di psicoterapia collettiva.
Ulisse si riscopre irrimediabilmente fragile: Letteratura rivelatrice
La Letteratura ci rivela quello che siamo, piccoli atomi trasportati da una forza cieca e irrazionale, ossessionati dalle nostre manie di grandezza. Dinanzi a un evento drammatico, come l’attuale epidemia, l’uomo si trova a fare i conti con un senso di precarietà e di profonda angoscia.
Egli, detentore della ratio, capace di elevarlo dagli istinti brutali e animaleschi e di collocarlo di diritto nel rango di essere superiore, trema. Non riesce a reggere la rivelazione della sua condizione di vulnerabilità. Ecco che, in preda allo sgomento, crollano, una alla volta, le maschere del raziocinio e le leggi della civile convivenza.
Dimenticato il buonsenso, spazzata via ogni regola. Come nella Savana, è un unico imperativo quello che conta, sopravvivere, a qualsiasi costo. Non esiste più un Noi. Noi uomini. Noi società civile. Solo un esercito di Io, in preda a un delirio compulsivo e a un ottundimento di massa, che avanza brancolando. Afferra ciò che può.
Scappa dal pericolo esterno, ma non riesce a fuggire da quell’inquietudine famelica, che ha ormai preso le redini del suo corpo.
Novello Ulisse
Eccolo, novello Ulisse che, in viaggio verso le colonne d’Ercole, estasiato, celebrava se stesso, bramava la fama eterna, la gloria, la divina conoscenza, l’imperturbabile certezza del controllo. Eccolo, brancolare nella folla, confondersi con essa. Perdersi tra i volti improvvisamente uguali, senza più connotati. Un unico marchio lo rende fratello e compagno, il marchio della paura.
Scriveva il premio Nobel José Saramago nel suo capolavoro Cecità, oggi richiamato da molti come testo rivelatore:
Non siamo diventati ciechi, lo siamo sempre stati. Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Vale la pena aggiungere, ancora, nella speranza che un barlume di coscienza ci ricordi il nostro essere umani, un altro passo dello scrittore portoghese:
Se non siamo capaci di vivere globalmente come persone, almeno facciamo di tutto per non vivere globalmente come animali.
Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo al personale medico-sanitario che, con abnegazione assoluta, sta lottando per salvare vite umane e per uscire, il più in fretta possibile, da questo incubo.